Sabato mattina, in occasione del focus Resistenza in lettere, che si svolge nell’ambito del Meeting Cinema&Storia, sarà ospite al Teatro Manzoni di Cassino Marika Venezia, moglie di Shlomo, recentemente scomparso, che testimonierà sul periodo della guerra e la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento. Abbiamo realizzato questa intervista telefonica per il nostro sito.
Marika Venezia è la moglie di Shlomo Venezia, grande scrittore italiano di origine ebraica, importante testimone della sua esperienza di sopravvissuto all’interno dei campi di concentramento nazisti.
Marika ha la voce squillante, la intervistiamo proprio nel giorno del suo compleanno e dall’altro capo del telefono si percepisce chiaramente che è in vena di festeggiare anche quando le chiediamo di spiegarci cosa significa per lei il 25 aprile. “Per me la Liberazione è talmente bella che non può non essere celebrata con tutti gli onori, ogni anno. La libertà è tutto e quando non c’è non può esistere niente di costruttivo nella vita di un uomo. Ho lavorato per 24 anni in un negozio a Fontana di Trevi e abbiamo sempre chiuso i battenti nel giorno della Liberazione. Tre anni fa, quando è arrivata l’ordinanza del Sindaco che affermava che non c’era da celebrare nessuna festa, ci sono rimasta molto male, ne ho sofferto. E sa perché? Perché io sono fuggita dall’Ungheria, dalla Romania; so cosa vuol dire mancanza di libertà”
Qual è la cosa apprezza di più della libertà?
La libertà di pensiero, di parola e di movimento. Ogni aspetto che la riguarda.
Ci racconta la sua esperienza di vita al fianco di Shlomo?
L’esperienza spaventosa che ha patito Shlomo gli ha causato gravi problemi di salute. Quando io l’ho sposato avevo 15 anni in meno e ho sempre cercato di farlo gioire anche attraverso le piccole cose: ogni tanto ci concedevamo un viaggetto, per esempio. Poi abbiamo tirato sù i figli e credo che siamo riusciti a farlo bene. Lui era di carattere pessimista e taciturno, ma penso e spero di essere stata in grado di alleviargli il dolore e la sofferenza che il campo di concentramento nazista gli ha procurato.
Crede che il caos che c’è nel mondo in questo momento possa rigettarci, prima o poi, nell’incubo di un nuovo conflitto mondiale?
Nel mondo non c’è un solo giorno di pace, purtroppo la guerra è sempre in atto. Quello che sta succedendo mi mette molta preoccupazione e non dobbiamo pensare che non ci riguarda perché accade a migliaia di chilometri da noi. Credevo che certe atrocità non si sarebbero ripetute mai più, ma evidentemente non siamo stati bravi a imparare dagli errori del passato. Quando i miliziani dell’Isis hanno bruciato nella gabbia il pilota giordano sono stata male due giorni, fisicamente e psicologicamente. Come si fa a infliggere crudeltà del genere a un essere umano dopo l’esperienza che abbiamo vissuto?
Come dovremmo reagire a quello che sta succedendo?
La gente non si indigna abbastanza e non vedo molto coinvolgimento malgrado la violenza, l’atrocità e la crudeltà dei crimini che continuano a essere perpetrati. Pensiamo “tanto è lontano”, “non ci riguarda”. Sbagliamo. Io sono pronta a lottare per far capire alle persone che bisogna aver paura della guerra e delle sue conseguenze.