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L’idea di Sassoli sulle società aperte

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Qui di seguito il testo integrale di uno dei discorsi più alti del Presidente del Parlamento europeo, scomparso la notte dell’11 gennaio, sul ruolo dell’Europa unita nel mondo contemporaneo: quello pronunciato lo scorso 11 luglio in occasione della commemorazione dell’eccidio nazista di Cibeno.

Campo di Fossoli (Carpi), 11 luglio 2021

Un saluto alle cittadine e ai cittadini di Carpi, al sindaco Bellelli, alle famiglie dei martiri di Cibeno, alle autorità civili e religiose, alle Associazioni partigiane, alle Associazioni degli ex internati nei campi di concentramento, alle rappresentanze comunali presenti.

Un saluto ai rappresentanti del governo – il ministro Bianchi, il sottosegretario Amendola – e un ringraziamento al presidente della Regione, e al caro amico on. Pierluigi Castagnetti e a tutta la Fondazione Fossoli che lui presiede.

Grazie per l’onore che mi è stato concesso di prendere la parola in questa cerimonia che anno dopo anno non smette di interrogarci e di aiutarci nella riflessione per declinare la memoria rispetto al contesto che stiamo vivendo.

Un ringraziamento speciale alla Signora presidente della Commissione. Grazie per essere qui e per quello che ha appena detto.

Con  la sua presenza si ribadisce che le nostre Istituzioni, insieme, sentono la responsabilità di non dimenticare e riaffermare che la nostra Europa nasce dal punto più basso di dolore della nostra storia contemporanea, dal degrado morale di società che si credevano immuni a scatenare l’orrore e non hanno percepito il pericolo del nazismo e del fascismo, dal grido delle madri che in tutti i nostri paesi, a qualunque fronte appartenessero, ogni qualvolta hanno ricevuto la notizia di un figlio morto hanno urlato ‘mai più la guerra’.

Ma quante volte, cara Ursula, in questi anni ci siamo sentiti dire da tanti cittadini, “ma in fondo cosa è l’Europa… ma via, l’Europa non esiste, e poi, a cosa serve l’Europa?”

Poi si viene qui – o nei cento, mille luoghi della disumanità prodotta dalla cultura europea – e le risposte arrivano. Domande semplici, per risposte impegnative per tutti.

Non vi è dubbio che in luoghi come questi riecheggi la voce muta degli uccisi, degli innocenti, il grido “viva la libertà, viva l’Italia” spezzato dalle fucilate a Cibeno dove vennero assassinati importanti dirigenti della Resistenza. Qui a Fossoli.

Mi hanno sempre colpito gli occhi delle vittime, la fissità degli occhi che guardano, ma non vedono. Sì, gli occhi dell’umanità privata di umanità. E, guardate, gli occhi delle vittime sono sempre gli stessi. Sono quelli delle foto nei lager, dei condannati a morte, quelli che ritroviamo sempre, in ogni guerra, in ogni persona violentata, annientata, in tutti coloro che cercano di salvarsi, nelle donne umiliate, nelle colonne di famiglie che scappano, nei bambini smarriti, in coloro che annegano, che si aggrappano alla vita e la perdono.

Gli occhi di Mauthausen, come gli occhi di Srebrenica, dei profughi siriani, delle mamme riprese sui gommoni prima di annegare nella corsa verso una felicità che non arriverà mai per la nostra indifferenza.

Gli occhi che vediamo nelle fotografie delle vittime e dei prigionieri ogni qualvolta viene a mancare la libertà e il diritto, e tutte le volte che libertà e diritto non si sposano con la giustizia.

Il mio pellegrinaggio oggi qui ha un solo motivo.

Ricordare che non basta credere di essere al riparo, e ribadire che l’orrore che ci travolse nasceva dentro grandi culture democratiche, liberali, progressiste anche, in un tempo di grandi invenzioni tecnologiche, di scoperte, di artisti, letterati e filosofi cosmopoliti e pieni di ingegno, ma tutti, tutti, incapaci di fiutare per tempo il pericolo del fascismo e del nazismo.

Culture sicure che non fosse possibile un capovolgimento dei valori fondamentali di umanità e civiltà.

Quello che è accaduto è il risultato di società consapevoli dei diritti, ma incapaci di farli prevalere contro i pregiudizi e gli odi. Società dal temperamento anche pacifista, ma incapaci di sradicare la pandemia della guerra. Società che si credevano migliori del proprio vicino, esasperando un antagonismo che ha trasformato l’amore per la propria terra in nazionalismo fanatico e criminale.

E non solo. Tutto questo è stato alimentato da classi dirigenti convinte di poter posporre la giustizia, la pace, l’uguaglianza, predicando che a tutto questo si dovesse pensare dopo, perché non era ancora il momento giusto, e arrivando alla conclusione – attenzione su questo – che con più democrazia, uguaglianza e giustizia si sarebbe fatto il gioco dei violenti e degli estremisti…

Cara Ursula, dicono lo stesso anche a noi oggi… quando diciamo di salvare i migranti ci dicono che stiamo facendo il gioco degli scafisti,  oppure che la magistratura indipendente o il giornalismo sono espressioni di disordine, oppure che è meglio non agitare il buon senso quando difendiamo la dignità di persone che vogliono amarsi, quando in Europa, a differenza della maggior parte del pianeta, hanno il diritto di farlo perché da noi i diritti delle persone e l’umanità sono la misura di tutte le cose.

A Cibeno, qui a Fossoli è accaduto. Può accadere ancora.

Per questo dobbiamo sentire l’impegno, come ha scritto Giuseppe Dossetti – leader politico, costituente, monaco, nato in questa terra – “per una lucida coscienza storica”, per rendere sempre testimonianza veritiera agli eventi che sono accaduti e impedire negazioni, amnesie, volgari opportunismi.

Ma Dossetti aggiunge anche che la coscienza storica da sola non basta. La nostra coscienza deve essere “vigile”, capace cioè di “opporsi a ogni inizio di sistema di male, finché ci sia tempo”.

Ecco perché non possiamo permetterci di sottovalutare le manifestazioni di odio, violenza, discriminazioni che si manifestano nello spazio europeo.

Ma c’è un segno dei tempi che ci fa dire con fiducia che alcune lezioni le abbiamo apprese.

Bene che il dibattito sulla ripresa, sulla ricostruzione delle nostre economie, corra di pari passo con quello che riguarda la difesa dello Stato di diritto, dei nostri valori fondamentali, delle libertà che devono essere garantite ai nostri cittadini. Non era mai successo, neppure durante la grande crisi che colpì la Grecia e l’Europa dieci anni fa. Mai il dibattito, la denuncia e il richiamo verso fenomeni degenerativi presenti in alcuni Stati europei era stato così attento e ci vede pronti con nuovi e inediti meccanismi sanzionatori.

Perché avviene questo?

Perché vi è il rischio che senza una ferma difesa dei valori fondamentali, l’Europa possa perdere identità e funzione provocando effetti catastrofici. Se allentassimo la soglia di attenzione non saremmo più in grado di sostenere che la democrazia è il sistema che meglio accompagna il desiderio di libertà, giustizia e benessere delle persone, non avremmo possibilità di proteggerci dalle ingerenze dei regimi autoritari, di far valere la nostra identità nelle relazioni internazionali in un momento in cui lo stile di vita europeo è ammirato e desiderato.

Spesso, nei nostri dibattiti, nelle nostre polemiche non ci accorgiamo di quello che siamo, di quanta voglia di Europa vi sia nel mondo. E di quanta attenzione vi sia nei nostri confronti per gli effetti di un diritto europeo che in 70 anni ha prodotto un legame indissolubile fra libertà individuali e libertà sociali.
Perdere tutto questo significherebbe precipitare nel nulla. D’altra parte perché i regimi autoritari, tutti, si preoccupano di noi?
Non facciamo la guerra, non abbiamo neppure un esercito anche se sarebbe venuto il monumento di averlo se non altro per risparmiare in inutili spese militari nazionali, non imponiamo il nostro modello, le nostre relazioni sono improntate al dialogo, parliamo con tutti, cerchiamo di sviluppare diplomazia là dove c’è conflitto… e allora, perché si preoccupano di noi?

Vi è un solo motivo. I valori europei mettono paura, perché le libertà consentono uguaglianza, giustizia, trasparenza, opportunità, pace. E se è possibile in Europa, è possibile ovunque.
Noi vogliamo uscire da questa crisi con società più aperte, più accoglienti, con meno diseguaglianze, con impegni concreti nella lotta alla povertà, con una democrazia più funzionante e partecipata, mettendo al centro gli anelli deboli delle nostre catene sociali come le donne e i giovani.

Per questo non tolleriamo che nello spazio europeo vi siano paesi in cui la magistratura o il giornalismo vengano umiliati nella loro funzione, in cui un vento antisemita costringa famiglie ebree europee a trasferirsi in Nord America o in Canada, in cui gli immigrati e i rifugiati vengano considerati uno scarto, in cui le donne siano sottopagate, in cui leggi nazionali producano discriminazioni, in cui si sostenga che territori europei vengono dichiarati “LGTBI free zone”.

In Europa i diritti di ogni persona sono diritti di tutti.

E quando si parla di territori vietati a qualcuno, mi viene in mente quando nel ‘42 i nazisti dichiararono Belgrado prima città ‘Judenfrei’, libera da ebrei… perché, è consuetudine, si comincia sempre dalle minoranze.

La memoria è parte della nostra identità. La nostra identità di cittadini. Abbiamo potuto costruire il futuro, riunire il Paese, avviare un tempo di democrazia, di sviluppo, di pace, abbiamo cominciato a edificare la nuova Europa alzando lo sguardo all’orizzonte perché siamo saliti sulle spalle di donne e di uomini che hanno messo in gioco ogni loro avere, che hanno rischiato anche soltanto per esprimere umana solidarietà verso chi era in difficoltà o in fuga, che non hanno risparmiato sacrifici per porre fine all’Europa dei nazionalismi esasperati e della guerra.

La Repubblica italiana, con la sua Costituzione, ha origine in quella speranza. L’Europa unita ha le sue radici più profonde in questi luoghi.
L’idea di bene comune è sempre la premessa delle libertà di ciascuno.
Il campo di Fossoli è un monumento civile. Ma a suo modo, è anche un luogo che le tragedie hanno modificato, plasmato. Un luogo che, dopo aver vissuto la disperazione del campo di concentramento, del campo di prigionia, del campo per rifugiati, nel dopoguerra ha visto aprirsi ad altri colori.  Sì, il registro è cambiato anche qui quando gli orfani e i ragazzi abbandonati di don Zeno tagliarono i reticolati della segregazione e vi costruiscono la loro Nomadelfia, la città dove la fraternità è legge.

Nomadelfia è una provocazione: non circola denaro, non esiste disoccupazione, uomini e donne lavorano all’interno della comunità senza ricevere uno stipendio, in quanto non si può pagare il fratello.
Anche il concetto di famiglia è diverso da quello esistente ovunque.
Qui uomini e donne sono tenuti a esercitare la paternità e la maternità su tutti i figli: anche su quelli che non appartengono alla loro famiglia. Da qui emerge un’idea di famiglia che non si limita alla dimensione biologica. I bimbi di Nomadelfia descrivono la famiglia così: “Mamma non è colei che ti genera. Questo è un fatto di Dio. Mamma è colei che ti nutre e che ti porta all’Amore”.

Papa Francesco il 12 maggio 2018 ci ha ricordato che don Zeno “seppe individuare una peculiare forma di società dove non c’è spazio per l’isolamento o la solitudine, ma dove vige il principio della collaborazione tra diverse famiglie, dove i membri si riconoscono fratelli”.
Oltre ai legami di sangue esiste la fraternità, che significa riconoscersi per la stessa dignità di cui godiamo.

Ha scritto il filosofo tedesco Ernst Bloch – che dialogò con il pensatore protestante Jorgen Moltmann e, a suo modo, influenzò la sua “teologia della speranza”: “Un novum storico non è mai totalmente nuovo. Lo precede sempre un sogno o una promessa”.
L’Europa della democrazia e della pace è la promessa nata con la Liberazione, con le liberazioni di Fossoli, della Risiera di San Sabba, dei campi disseminati nell’Europa centrale, ma anche con le picconate che demmo al muro di Berlino riconquistando alla libertà i nostri paesi dell’Est.

L’Europa è una costruzione sempre in divenire. E non dovrà mai fermarsi. È un cantiere che non smette mai di operare, o se si vuole, è una cattedrale la cui officina richiede l’impegno di successive generazioni.
Per questo motivo siamo così determinati ad imprimere velocità al processo di adesione dei Balcani Occidentali, e a mantenere le promesse fatte dall’Europa per una riconciliazione dello spazio politico con lo spazio geografico. Non vogliamo che la delusione di Albania e Macedonia del Nord prevalga e il loro sguardo si rivolga altrove. E lo stesso vale per tutti quei paesi che sentono ancora forte il desiderio di far parte della nostra famiglia.

La pandemia ha colpito e ha fermato l’Europa e il mondo. Questa volta però l’Europa non è stata passiva come avvenne in occasione della grave crisi finanziaria di dieci anni or sono. Questa volta l’Europa è stata capace di compiere un balzo in avanti. Non una risposta ordinaria, ma un cambio di paradigma. Che prelude – così vogliamo pensare – a una Europa più giusta e più forte nella dimensione globale. E fra le lezioni di questi 16 mesi difficili, dolorosi, incerti vi è ora la consapevolezza che l’Europa non sono solo le istituzioni di Bruxelles, ma lo sono anche i governi e i parlamenti nazionali e le nostre regioni. Siamo tutti tasselli fondamentali di questa grande impresa.

Nessuno pensi che si tratti di una scelta definitiva, valida una volta per sempre. In democrazia non ci sono mai conquiste scontate. Sta a noi dare attuazione alle nuove strategie, alle nuove politiche, alle nuove responsabilità comuni. La democrazia stessa va continuamente alimentata, adeguata, perché altrimenti rischia di inaridirsi, di non essere amata, di dare spazio a rabbie distruttrici, a istinti di chiusura, magari nell’illusione che una casta, o una élite, possa salvarsi da sola in un fortino blindato. Una democrazia efficiente, che offre risposte, che non si blocca per diritti di veto è una assicurazione sul nostro futuro.

Abbiamo una responsabilità storica in questa stagione in cui vogliamo, in cui possiamo, uscire dalla fase più acuta della pandemia. La responsabilità di mettere in moto uno sviluppo finalmente sostenibile, di costruire comunità socialmente più coese, società accoglienti, di lottare contro la povertà e trasmettere il testimone della vita a una generazione che possa anch’essa essere libera di progettare il proprio futuro.
In fondo, c’è qualcosa che unisce il passaggio di testimone di allora, tra i resistenti, liberatori e le vittime innocenti, con quello di oggi: aprire ai giovani la porta di un domani migliore.

Allora era soltanto l’intuizione di donne e uomini coraggiosi, generosi e lungimiranti. Oggi bisogna essere ciechi per negare l’evidenza: questo è possibile solo considerando l’Europa il nostro destino.

Un grande pensatore europeo contemporaneo, Edgar Morin, che ha appena compiuto 100 anni, ma non smette di aiutarci a riflettere, sostiene che la nostra Europa sia nata dalla rivincita dell’umanesimo sulla barbarie. “C’è voluta la morte dell’Europa dei tempi moderni (nel 1945) perché ci fosse un primo voler nascere europeo”. Ma ora, ci dice Morin, con i mercati globali, i poteri sovranazionali, le straordinarie possibilità della tecno scienza, l’Europa deve darsi il compito di un nuovo umanesimo europeo. “Unità nella diversità e diversità nell’unità” ne sono le fondamenta. E spetta a noi trasformare ciò che appare una fragilità o una debolezza del nostro Continente in un tessuto di dialogo, di civiltà, di cooperazione che possa essere punto di riferimento nel mondo.
Tutto questo ci fa sentire – oggi qui a Fossoli ricordando i martiri di Cibeno e i 5mila e oltre partiti per i campi di concentramento in Germania – figli della Grande Storia.
Quella che ha provocato milioni di morti in Europa e nel mondo. Quella ha toccato il culmine nell’Olocausto, nella strage dei Rom e dei Sinti, quella che ha aperto la strada della Liberazione e ad una civiltà, certamente imperfetta, ma che è stata capace di promuovere pari dignità, diritti universali, crescita, opportunità, sicurezza sociale ed oggi è ammirata nel mondo.

Tutto questo ci richiama alla nostra funzione di sentinelle del domani dei nostri ragazzi. Non possiamo bendarci gli occhi, perché l’indifferenza porta alla violenza ed “è già violenza”, come ammonisce la senatrice Liliana Segre, invitandoci a “sentire il dolore degli altri, perché ognuno ė la traccia di ognuno”.

Solo così onoreremo le donne, gli uomini, sulle cui spalle siamo potuti salire per godere di un destino diverso.

da www.reset.it

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